Ormai lo abbiamo capito tutti: il Futuro ci ha fottuto. E a nostre spese. Maledetto! Proprio tu, Futuro, Cassandra dei giorni nostri. Eri così sexy e intrigante, muscoloso ed energico, così potenzialmente dotato di attrezzature super intelligenti, ci hai fatto credere nei cani robot, le amanti di latta e i partner per sempre. E le nostre case? No! Non voglio credere che morirò dentro quattro mura dritte! Ma in realtà ho capito chi sei veramente. E già da tempo. A tradirti sono state quelle “scarpacce” rotte che portavi sotto un luccicante tuxedo Armani. Diabolico come il Principe, astuto come Ulisse, ti sei insediato nelle nostre vite col tuo miglior Cavallo e, quando tutto era perduto, sei uscito allo scoperto e ci hai annichiliti svelando il tuo ruvido carattere. C’era da aspettarselo. In fin dei conti, nell’ultimo periodo, mi ero pure stancato di prevederti e di intuire i tuoi prossimi passi. Ormai mi avevi rovinato tutto Kubrick, mezza collezione di Philip Dick e perfino Martin McFly… Grazie a te, in questo momento, mi sento quasi come Benjamin Button di Scott Fitzgerald nell’omonima vicenda ideata nel secolo scorso e portata nel nuovo dal Fincher di Fight Club: sono vecchio e cerco disperatamente di raggiungere una giovinezza lontana. Sai che c’è? Alla fine non ti condanno. È la tua natura dissenziente che ti fa perdere lucidità a vantaggio di caos ed incertezza. Eppure eri nato per avere un grande futuro, tu che eri il Futuro. Ma troppi hanno voluto che assumessi le sembianze di ciò che meno li spaventava colpendoti ripetutamente, fino a sfigurati. Infine, “regalandoti” nuove sembianze da Passato conservatore. Ma come nelle più belle storie di inizio Ottocento sei quasi il Quasimodo di Victor Hugo, nobile d’animo anche se di aspetto non comune. E se sei quel buffo mezz’uomo che tanto amava la sua cattedrale, allora riunisci i tuoi amici gargoyle e liberaci da tutti i mali. Amen. Immaginiamo insieme un nuovo futuro, anche se da una direzione contraria a quella del secolo passato. Viviamo esattamente cento anni dopo l’epoca di quei futuristi come Villemard che aveva immaginato la sua Parigi d’inizio secolo da un punto di vista davvero unico. Un approccio punk, e steampunk, che ci dà l’idea di come i nostri predecessori (o almeno una piccola schiera) immaginavano il futuro da una grande distanza, non solo temporale ma anche tecnologica, rispetto a quella in cui ci troviamo a vivere adesso. In quel periodo, l’orientamento al futuro ripercorreva profondamente il pensiero intrapreso dal ben più noto Jules Verne. Una sorta di approccio leonardesco ad un domani di prossima disfatta (il nostro) con architetti che progettano e costruiscono contemporaneamente da una cabina meccanizzata, senza l’ausilio di alcun operaio; autogrill per il ristoro dei piloti d’aerei e metropolitane sospese e spazi dove piccoli studenti vengono indottrinati da cavi collegati a tritura-libri, probabile motivo di ispirazione per la famosa lirica Another Brick in the Wall. Le abitazioni avrebbero subito una rapida evoluzione nel giro di pochi anni. L’attuale domotica si sarebbe perfettamente integrata nelle loro case e il progresso chimico avrebbe permesso nuovi metodi di trasporto della materia e, quindi, nuove vie nel ripensare spazi e arredi. Visioni sicuramente vicine alle attuali condizioni delle città con crescite demografiche che si apprestano a trasformarle sempre più in megalopoli. Come architetto, con una vocazione a un design futuristico, credo in questa utopia – come manifestazione essenziale di cultura e di coscienza del nostro impegno verso un nuovo senso del fare – poiché, se non abusata, ci permette una progressione elevata delle nostre conoscenze immaginando scenari futuri capaci di intercettare esigenze che attualmente non esistono. Ma come “rifare” oggi l’uomo, ridandogli illusioni, fiducia e ansia in un futuro che in realtà guarda al passato?
Immagine “France in XXI Century Air firemens” Retrofuture Postcards di Willemard